lunedì 27 maggio 2013

L'uomo e il soldato

Fra i suggerimenti del Professor Marchis, quello che recita: "Find a personality who can become the testimonial of the blog theme", lo ritengo in assoluto il più arduo.
Certamente ci sono moltissimi nomi che hanno a che fare con la guerra, lo stesso Emilio Lussu ne è un vivido esempio. Il mio problema è stato trovare qualcuno migliore di un personaggio fittizio che molti conoscono. Alla fine ho deciso di parlare proprio di Lui. Sto parlando di Big Boss, uno dei personaggi principali della saga di videogiochi "Metal Gear", creata da Hideo Kojima.

Big Boss
Per chiunque pensi che la mia sia stata una scelta infelice, solo perché Big Boss è un personaggio di un videogioco, non posso fare altro che invitarlo a giocare ai titoli in questione con mente aperta e senza pregiudizi, in quanto molti giochi, ma questa saga in particolare, nascondono una profondità che molti altri mezzi di intrattenimento non possono raggiungere.
Per chi non lo conoscesse, Big Boss, il cui vero nome è John, è un soldato che ha combattuto innumerevoli battaglie. Addestrato dal soldato leggendario "The Boss", che fu per lui mentore e madre, il cui rapporto fu più profondo che quello fra uomo e donna, in una missione gli venne ordinato di ucciderla. 

The Boss e Big Boss
Dopo un travaglio interiore, che continuerà anche negli anni a venire, porta a termine la missione, e da allora viene conosciuto come Big Boss (precedentemente era conosciuto come Naked Snake).
Tralasciando, con mio sommo dispiacere, parti successive della sua vita (che vengono narrate in vari giochi quali Metal Gear Solid: Portable Ops e Metal Gear Solid: Peace Walker), passo direttamente al motivo chiave che mi ha portato a questa scelta. 

Big Boss è un soldato. Lo è sempre stato. Sarà a capo di un vasto esercito mercenario, con il quale sventerà molte catastrofi, come ad esempio lo scoppio di un nuovo conflitto di scala mondiale. Sarà un esempio per tutti i suoi soldati, la quale lealtà verso di lui sarà assoluta. Ma non è solo questo: anche la sua lealtà verso i suoi uomini sarà assoluta. Come un vero comandante, vedrà dietro ognuno di loro un uomo.
In guerra morire e uccidere sono atti normalissimi. I soldati si uccidono fra di loro, e sparando al nemico vedono solo un altro soldato. Ma uccidere un uomo è tutt'altra cosa. Quando finisce l'uomo e quando comincia il soldato?

A pag. 136 di "Un anno sull'Altipiano" Lussu racconta:

"Io facevo la guerra fin dall'inizio  Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò e io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.L’ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L’indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.Certo, facevo coscientemente la Guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita. 
[…] 
Perché non avrei, ora, tirato io sull'ufficiale  Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v’era dubbio, io avevo il dovere di tirare.E intanto, non tiravo.
[…] 
Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!Un uomo!Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale! Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro centro altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: <Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido> è un'altra. È assolutamente un'altra cosa, Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo.
Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:- Sai... così... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi?Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:- Neppure io."

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